STORIA DEL DIABETE - Narrativa e Diabete

Indice Storia

   

 

 

A complemento od appendice di questa storia, una divagazione di costume: il diabete nella letteratura narrativa moderna.

A parte il fine approccio psicoanalitico alla "dolce malattia" per cui "si muore in dolcissimo coma" in "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo (1861-1928), è per lo più fatto indulgente riferimento -nei romanzi- a personaggi che hanno il diabete. Così Tennie in "Herzog" di Saul Bellow; don Sabas in "Nessuno scrive al colonnello" di Gabriel Garcia Marquez; il signor Alfio in "Il bell'Antonio" di Vitaliano Brancati. In videonarrativa, Shelby è la commovente giovane insulino-dipendente in "Fiori d'acciaio" di Robert Harling. 

 
Ma due testi, di diversa levatura stilistica, si prestano a una lettura completa.  

 

Il primo è tratto da "I Buddenbrook- Decadenza di una famiglia" di Thomas Mann (1875-1955) , nella traduzione di Anita Rho (Einaudi, Torino, 1953) (Fig.1). L'episodio si inserisce nell'affascinante racconto della Lubeek mondana ottocentesca, con il sempre imprevedibile intreccio degli eterni destini umani.

 

Fig.1 - Thomas Mann (D.V.Engelhardt) e lo scenario dei Buddenbrock in una fotografia dell'epoca (1902))

«James Möllendorpf, il decano dei senatori commercianti, morì in un modo grottesco e orribile. Il vecchio, malato di diabete, aveva perduto a tal punto l'istinto di conservazione che negli ultimi anni s’era abbandonato sempre più alla sua passione per i dolciumi. Il dottor Grabow, che era medico anche di casa Möllendorpf, aveva protestato con tutta l'energia di cui era capace, e i familiari, preoccupati, con dolce violenza avevano tolto al loro congiunto pasticcini e torte. Ma il senatore che aveva fatto? Indebolito di mente com'era, aveva affittato in una viuzza povera e indecorosa una cameretta, un buco, dove scappava di nascosto a divorar paste... E là lo trovarono morto, con la bocca ancora piena di torta mezzo masticata, i cui resti gli macchiavano il vestito o eran sparsi sulla misera tavola. Un mortale insulto apoplettico aveva prevenuto la lenta consunzione.

I nauseanti particolari di quella morte furon tenuti celati il più possibile dalla famiglia, ma si diffusero presto in città e divennero l'argomento del giorno alla Borsa, al circolo, all'Armonia, negli uffici, nel Consiglio comunale, e anche ai balli, ai pranzi, ai ricevimenti, perché il fatto era accaduto in febbraio - il febbraio dell'anno '62 - e la vita mondana ferveva ancora in pieno. Persino le amiche della consolessa Buddenbrook, alla «Serata di Gerusalemme» parlarono della morte del senatore Möllendorpf, appena Lea Gerhardt interruppe la lettura; ne bisbigliarono anche le scolarette della domenica, attraversando compunte il grande androne, e il signor Stuht della Glockengiesserstrasse ne dissertò a lungo con sua moglie, che frequentava i migliori ambienti della città.

Ma l'interesse generale non può rimanere per molto tempo rivolto al passato. Fin dalla prima notizia della morte del vecchio senatore, era sorta un'importante questione e quando la terra lo ebbe ricoperto, rimase sola quella questione ad agitar tutti gli animi: "Chi sarà il successore? "» 

 

Il secondo brano è in "Il vento non sa leggere" di Richard Mason, traduzione di Bruno Ponzi (Frassinelli, Torino, 1952). Il romanzo è ambientato in India nel 1942, all'epoca della guerra in Birmania contro i Giapponesi. Il protagonista, l'ufficiale della RAF Michael Quinn, incontra il missionario Mr. Headley e ne nasce questa sequenza.

« Occorre un alito di simpatia per la comprensione. Feci dietro-front e tornai all'ufficio del signor Headley, e tutto quel caos polveroso ebbe un amichevole e familiare aspetto inglese.

Da dietro la sua scrivania il signor Headley mi chiamò come fossi un visitatore abituale.

- Avanti, avanti, - disse. - Non sembra molto accaldato. - Fa caldissimo, fuori, - dissi io.

- Mi scusi, disse. - Io sono uno di quegli stupidi che dicono sempre la parola sbagliata.

Vidi che teneva in mano una siringa, e che spingeva l'ago attraverso il coperchio di gomma d'una boccetta.

- E' una cosa meravigliosa, l'insulina, - disse - Sono ventidue anni che mi tiene in vita. Quanti anni mi dà?

- E' difficile dirlo, - dissi -, Cinquanta o cinquantacinque, forse.

- Sessanta. E sempre stato bene, mai niente. E tutto per merito dell'insulina.

- Splendido, - dissi. - Guardi qui.

Si sbottonò la camicia e strinse tra le dita un po' di carne. Era un ometto piccolo e nervoso, e pelosissimo.

- Guardi - disse, e si alzò una gamba dei calzoncini kaki, - Guardai la sua coscia.

- Neanche un segno! - disse. - E mi punzecchio due volte al giorno da ventidue anni. Ogni giorno in un posto diverso, questo è il segreto. Lo sa quanto mi ci vuole per fare il giro del mio corpo?

- Non ne ho la minima idea. - Otto mesi. Guardi.

Affondò l'ago nella carne della gamba e cominciò a iniettare il liquido. - Non la vedrà nemmeno, la puntura. Non ho usato questo posto dal febbraio scorso, e non lo userò più fino al giugno venturo. E adesso, - disse, sempre continuando a schiacciare, - si sieda e mi dica che è.

- Mi chiamo Michael Quinn - dissi.

- Quinn? - ripeté lui. - Non ho mai conosciuto nessuno con questo nome. Che cosa è? Non m'intendo di uniformi.

- Aviazione, - dissi.

- Bene, - disse, - Resti a colazione, se si accontenta di quello che c'è. Tra dieci minuti ci mettiamo a tavola. Devo stare all'orario, capisce? perché sono diabetico. Come mai è venuto a trovarmi?»